Succede un giorno e improvvisamente ti esplode quello che non avevi capito ma che sentivi da tempo … come uno spaesamento, un essere fuori posto, un piangersi davanti alla propria immagine chi sono? Chi sono stato chi sto diventando?
E allora capisci i pianti, le rabbie e le angosce e dai loro un nome: il mio corpo di femmina non mi piace. Come un bambino ferito sento cosa mi fa male: che mi dicano donna, bella … questo mi ferisce. Non sono più Lucia. Lucia è morta e sepolta. Ma chi sono?
Indossare un “binder “cosa mi fa sentire?
Valorizzare la mia peluria, cosa attiva in me?
Che idea ho di me e come farla coincidere con questo corpo lacerato, che grida, urla che non è una femmina e che teme di diventare un corpo che non si riconosce più?
Ecco in me il paradosso, l’angoscia delle angosce: non con me, non senza di me.
Non so se sono la persona che dico di essere...
Così come sono non voglio stare, voglio sparire, mi faccio dolore, tristezza, rabbia.
Senza me neppure voglio stare, perché voglio sentirmi e farmi sentire sempre una persona, che ha desideri, passioni, idee, che sfida, che cade, si rialza.
Tra me e il mio corpo c’è un velo, un ostacolo.
Come superarlo, attraversarlo, guardarlo senza essere invaso dalla tristezza e dallo sconforto?
Questo corpo di femmina non lo sento mio, non è mio, ma quale corpo diventerà mio, quale mi farà emergere come persona e mi farà sentire di avere ritrovato il mio posto?
Le persone continuano a percepirmi come una ragazza. Come potrò farmi vedere da loro come io stesso mi vedo, dare loro i miei stessi occhiali? Ho paura di non riuscire mai a farmi riconoscere!
Le persone non riescono a vedermi come io mi vedo, sbagliano i pronomi, non mi chiedono scusa, non sentono il mio tormento, minimizzano.
E gli sguardi, prima diretti e franchi, si fanno obliqui, non sanno dove posarsi, si fanno evitanti e incerti.
E allora mi viene da pensare che la disforia non sia di genere, ma sociale!
Sta nascendo una mia forza
Tra sprazzi di dolore e di tristezza sta nascendo la mia forza:
Come?
Con gli “altri occhi” che la mia psicoterapeuta mi fornisce puntualizzo più chiaramente la mia condizione.
La paura del rifiuto mi attiva una trappola: rinunciare, evitare ogni mia esposizione per evitare il dispiacere di essere rifiutato e di restare deluso da chi credevo mi capisse e mi accettasse.
Questa sensazione mi fa provare una rabbia intensa sia contro le persone che contro me stesso, perché non riesco a trovare il coraggio di provare.
Ho toccato il fondo, tanto vale che provi l’indicazione terapeutica!
“Se mi impegnassi a peggiorare la mia situazione di ritiro e di rinuncia, cosa potrei fare o non fare, cosa potrei pensare o non pensare?”
Mi metto in tale ottica e mi rivedo solo, sempre più solo, rinunciatario e isolato. nessuno mi capirebbe più e potrei perdere anche il lavoro...NO, NON voglio peggiorare!
La terapeuta mi fornisce una ulteriore prescrizione.
Apriamo uno scenario oltre al problema: “Se gli altri mi accettassero come sono e non avessero tentennamenti o incertezze, cosa farei di diverso? Come mi comporterei nei loro confronti?”
Questo tipo di suggestione mi apre uno scenario di desideri:
Non ho niente da perdere, tanto vale provarci!
Inizio con persone che considero più aperte ed elastiche, insomma dalle situazioni più facili.
E mi ritrovo, con un certo stupore, a dovermi ricredere: mi esprimono comprensione, sono gentili, mi chiedono con quale nome vorrei essere chiamato, chiedono scusa se si sbagliano e ogni tanto mi chiamano Lucia…
Altra ristrutturazione della psicoterapeuta è questa: io sono scomodo, impegno le persone a mettere in crisi le loro abitudini di pensiero, i loro stili di vita, i loro punti di vista.
È una sfida di tipo culturale che affronto ogni giorno: siamo in Italia e non in America!
Di quanto la mia disforia sia “sociale” piuttosto che di genere, che scoperchi un vaso fatto di stereotipi e di preconcetti, me ne rendo conto osservando il comportamento di mia sorella che ha 7 anni: lei dice di avere un fratello, mi chiama con il nome che ho scelto, non sbaglia mai i pronomi e mi vuole un sacco di bene.
Sento che solo se mi arrendo, sono sconfitto.
E non voglio arrendermi, ma continuare a lavorare su me stesso cercando i miei punti di fragilità, sicuro che, come dice Hemingway “il mondo spezza tutti, poi molti sono forti nei punti spezzati”.
Le mie paure principali erano di non essere creduto, di essere giudicato male e di trovarmi di fronte ad una situazione in cui qualcuno cercava di rimettermi nella mia posizione. Quando ho capito che non era questo il caso, per me la terapia è diventato un luogo sicuro di confidenze senza timori.
La cosa che più mi ha lasciato sorpreso è con quanta facilità venivo capito, logicamente dovevo aspettarmi che un professionista fosse in grado di poterlo fare, ma non lo davo assolutamente per
scontato e pensavo che sarebbe stato difficile se non impossibile riuscire a capire cosa avessi in testa.
L’accettazione di sé è stato il passo più importante e su questo ho fatto molti progressi.
Resta ancora da lavorare sulla mia condizione attuale che esprimo con parole che ho trovato in un commento e che ho fatto mie: “non voglio essere femminile come può esserlo una donna, voglio essere femminile nel modo in cui solo gli uomini sanno esserlo”, e mi rendo conto che la mia femminilità risiede comunque in me, ma tirarla fuori vorrebbe dire dare “l’approvazione” per essere visto in un modo che non sono. La sfida della mia vita continua. E diventerà la mia più grande risorsa.
Roby
Dottoressa Pierangela Bonardi
Psicologa Psicoterapeuta - Parma - Reggio Emilia
Dottoressa Pierangela Bonardi Parma - Reggio Emilia
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Dott.ssa Dott.ssa Pierangela Bonardi
Iscritta all'Ordine degli Psicologi della Regione Emilia Romagna 0907 dal 08/06/1993
Iscritta all'Albo Psicoterapeuti Emilia Romagna (03/03/1995)
Laureata in Pedagogia e Psicologia, Specialista in Psicoterapia Breve Strategica
Consulente del Tribunale di Reggio Emilia
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